In Cina la sharing economy non vuole essere disruptive ma collaborativa


Una caratteristica comune a tutti i business della sharing economy è il loro essere disruptive (in italiano rivoluzionario) nei confronti degli equivalenti servizi offerti dalle società che tipicamente fanno parte della old economy. Così si è creata una contrapposizione tra taxi e car sharing o ride sharing (Uber) e tra hotel e Airbnb. Per evitare il dualismo tra forme di economia legate alla tecnologia e quelle tradizionali la Cina ha scelto una via che merita di essere approfondita e magari anche copiata nel mondo occidentale perché capace, con il dialogo, di coniugare sharing economy e servizi offerti dalle aziende più tradizionali. Pur credendo che la motivazione alla base è legata al fatto che molte sono le aziende tradizionali che vedono il coinvolgimento di capitali pubblici cinesi e che quindi si vuole evitare un effetto di cannibalizzazione industriale, crediamo che la via del dialogo tra economia della condivisione e economia reale possa fare realmente bene non solo alle aziende coinvolte ma soprattutto all’intera collettività. La conferma che la Cina guarda con molto interesse alla sharing economy arriva dal fatto che il tessuto economico cinese negli ultimi anni ha iniziato una trasformazione: da un’economia manifatturiera a una basata sui servizi. In tale quadro il China’s National Information Center ha stimato che la sharing economy peserà nel 2020 il 10% dell’intero PIL del Paese. Tutto ciò ha portato, con largo spirito di lungimiranza da parte del governo cinese, anche alla nascita della Commission on the Sharing Economy in China (CSEC). In questa istituzione, in cui siedono big corporation tra cui Lenovo, Linkedin, Airbnb, Tencent e molte altre, l’obiettivo è la collaborazione tra aziende nuove, old e Governo per ottenere vantaggi reciproci a beneficio di tutti gli attori tra cui anche i consumatori. Un esempio di come la sharing economy cinese non voglia in alcun modo cancellare i business tradizionali è rappresentato da Didi che cerca di includere nel suo servizio tecnologico di ride sharing i tassisti consapevole dal fatto che il dialogo fa bene al business. Il caso di Didi è emblematico anche perché la società, come SocialEconomy vi ha raccontato, ha comprato nel corso del 2016 le attività cinesi di Uber. Un altro esempio concreto della collaborazione concreta tra governo e sharing economy è rappresentato dalla società di ride sharing cinese Weigongjiao, una società con base a Hangzhou, fondata delle autorità locali cinesi attente a cercare di combattere l’inquinamento. Insomma la Cina insegna che il dialogo tra le aziende, new o old che siano, i consumatori e i governi rappresenta un valore inestimabile per lo sviluppo della sharing economy. Noi di SocialEconomy ci auguriamo che questo esempio fatto di collaborazione, dialogo e apertura, cinese possa essere seguito dal mondo occidentale consapevoli del fatto che una maggiore attenzione da parte dei governi del mondo aiuterebbe lo sviluppo visto che ogni stato deve fare di tutto per incentivare la libera impresa e cercare di attrarre gli investimenti esteri sul proprio territorio. Purtroppo a oggi in Europa e negli USA le cose nel mondo delle startup, e quindi anche della sharing economy, stanno diversamente, basti citare la mancanza di armonizzazione fiscale che tanto spaventa coloro che vogliono fare impresa e che in più sedi rivendicano norme certe e magari anche uguale all’interno dell’area Euro. Il fatto che la Cina abbia tracciato la strada la troviamo una cosa naturale da paese leader in campo economico qual è e da stato attento alle tradizioni visto che come abbiamo avuto modo di scrivere nel nostro primo post riteniamo che la sharing economy rappresenta una sorta di rivincita di Karl Marx e del comunismo sul capitalismo tradizionale. 

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