Bike sharing: a Milano il 70% degli utenti integra BikeMi con la metropolitana


Il Dipartimento di Economia, Management e Metodi Quantitativi dell’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con Clear Channel, gestore di BikeMi, tra il 2016 e il 2017 ha condotto un’indagine sulla qualità e la customer satisfaction degli utenti del servizio. Lo studio è stato diretto da Giancarlo Manzi, docente di Statistica e Data Mining, e da Giorgio Saibene, dottorando in Sociologia Economica e Scienze del Lavoro. I risultati sono stati presentati al pubblico questo pomeriggio alla presenza di rappresentanti dell’amministrazione comunale. Il questionario d’indagine è stato somministrato a 25.688 abbonati di BikeMi e ha permesso di acquisire informazioni preziose non solo per comprendere la percezione qualitativa del sistema di bike sharing da parte dei suoi abbonati, ma anche per tracciare le caratteristiche del biker tipo e conoscerne abitudini e comportamenti. I risultati dell’indagine rivelano che gli utenti BikeMi sono prevalentemente uomini (57%), di quasi 41 anni, con un’elevata istruzione (il 95% degli utenti ha almeno il diploma di scuola secondaria superiore, il 72% almeno un titolo di istruzione terziaria cioè una laurea a ciclo breve), è un imprenditore (25%) ed è sposato o convivente (per il 57% dei rispondenti). A fare uso delle biciclette condivise, uno dei massimi esempi della sharing economy, sono principalmente i lavoratori che le integrano con altre reti di mobilità sostenibile: il sistema viene infatti considerato, dal 95% degli intervistati, un’alternativa più che valida all’automobile. Il 70% degli utenti integra BikeMi con la rete metropolitana, il 55% con il tram e 40% con l’autobus. Grazie all’introduzione delle biciclette a pedalata assistita (oltre 8 utenti su 10 sono soddisfatti delle e-bike) e ad una distribuzione sempre più capillare delle stazioni, le due ruote del Comune di Milano, non sono più semplici mezzi per recarsi dalla fermata della metropolitana a casa o al posto di lavoro, ma anche per coprire l’intera tratta, evitando problemi di traffico, scioperi e parcheggio. Quanto emerso dall’analisi è un quadro estremamente positivo. Tra gli aspetti maggiormente apprezzati, la policy delle tariffe e il Servizio Clienti. Oltre il 90% dei rispondenti al sondaggio ritiene che i costi e i tempi di restituzione per l’utilizzo delle biciclette siano più che ragionevoli. Anche il supporto alla clientela offerto tramite Call Center, posta elettronica e social network supera il 90% per quanto riguarda i consensi: 7 utenti su 10 si dichiarano molto soddisfatti. Le principali aree di miglioramento del servizio suggerite sono relative allo stato di manutenzione delle biciclette e alla presenza/assenza di biciclette negli orari di punta del traffico cittadino. Tra le possibili innovazioni presenti e future che possono essere lanciate per aumentare l’utilizzabilità di BikeMi sembra che la possibilità di trasportare carichi pesanti (per esempio la spesa) sia una delle priorità degli utenti. Il 76% afferma di desiderare di avere a disposizione una cargo-bike per muoversi in città. Il 10% si dimostra sensibile agli utenti diversamente abili e apprezzerebbe l’introduzione della hand-bike (bicicletta alimentata dal lavoro delle braccia). L’indagine non ha coinvolto solamente gli abbonati annuali ma anche gli utenti occasionali, tra cui utenti con abbonamento giornaliero e settimanale, il 40% dei quali sono risultati essere stranieri. Anche questo bacino di utenza ha espresso pareri positivi, andando a confermare i risultati dell’analisi rivolta agli abbonati annuali. L’indice di gradimento complessivo del servizio per chi sceglie le formule di sottoscrizione giornaliere o settimanali è pari al 90%. 

Sono 750 mila i turisti che hanno scelto l’home sharing a Roma nell’ultimo anno. Oggi l’incontro tra gli host Airbnb della Capitale 

Foto Airbnb Citizen


Oggi, 4 aprile, gli host Airbnb di Roma si sono dati appuntamento per discutere del nuovo regolamento sul turismo proposto dalla Regione Lazio, che andrà a regolare il settore extra alberghiero anche alla luce del fenomeno della sharing economy. Le nuove regole chiariscono la possibilità per gli host di condividere le loro case con viaggiatori da tutto il mondo. L’incontro è aperto a chiunque voglia discutere del tema con gli host presso gli spazi Luiss Enlabs di via Marsala 29h, dalle 18.30. Da un recente sondaggio, condotto da DBR per Airbnb a Roma, è emerso come l’81% dei romani sia favorevole alla possibilità per i propri concittadini di condividere la casa con i viaggiatori che vengono da tutto il mondo a visitare la Capitale e, da lì, tutto il territorio regionale del Lazio, che raccoglie tesori come Civita di Bagnoregio (della cui iniziativa SocialEconomy vi ha parlato in un suo recente post). Fra i dati, è anche emerso che il 56% degli intervistati si oppone a un eccesso di burocrazia nei regolamenti. Secondo l’Economic Impact Study sono stati oltre 750.000 i visitatori che si sono recati, in un anno, a Roma con l’home sharing, spendendo €400 milioni in esercizi commerciali locali. Circa 10.000 host hanno accolto i visitatori nelle loro case, guadagnando in totale oltre €93 milioni. A Roma, il tipico host guadagna annualmente €5.500, condividendo i propri spazi per 50 notti. La regione Lazio ha visto, nel suo complesso, nel 2016, 15.700 persone fare gli host con Airbnb. Gli ospiti della regione sono stati 1 milione e 210 mila. Il ricavo medio per ogni host è stato di 3.430 euro all’anno. Gli host come loro chiedono regole semplici e chiare per l’home sharing nel Lazio. A Roma gli host hanno lanciato, nei mesi scorsi, un gruppo impegnato nel territorio sui temi dell’home sharing e della cittadinanza attiva: l’Home Sharing Club Roma Hanno avviato delle attività per promuovere i negozi di quartiere, per rendere la città più pulita e aiutare altre comunità. Hanno già organizzato diversi incontri per discutere di come sostenere la voce di chi pratica l’home sharing, per aiutare i nuovi host e creare appuntamenti culturali e di scoperta di Roma.

Gli italiani battono francesi e spagnoli nella vendita online di oggetti usati. La sharing economy spinge uno stile di vita maggiormente sostenibile 


Gli italiani sono i più bravi nel guadagnare dalle vendite online di oggetti che non usano più, rivela una ricerca internazionale condotta da Ipsos per eBay. Nel 2016, benché abbiano sfruttato quest’opportunità meno di spagnoli e francesi, gli italiani sono però riusciti a ricavarne più denaro: 135 euro in media contro i 124 euro degli Spagnoli e 110 euro dei Francesi. Nonostante riescano a trarne maggior profitto, gli italiani rimangono ancora un po’ in ritardo in termini di vendite online – solo il 35% degli intervistati ha dichiarato, infatti, di aver già utilizzato piattaforme online per vendere gli oggetti inutilizzati (contro il 44% degli intervistati in Spagna e il 57% in Francia), ma sono intenzionati a recuperare lo svantaggio. Il 45% degli italiani si mostra volentieroso a ricorrere all’online per la vendita dei propri beni usati in futuro e ben il 50% afferma che venderà di più attraverso canali online. E’ dunque arrivato il momento per gli italiani di vendere di più attraverso il canale digital non solo per monetizzare ma anche per dare agli oggetti non utilizzati una seconda vita: evitare gli sprechi, adottare uno stile di vita più sostenibile e partecipare in modo attivo alla sharing economy. L’idea di possedere gli oggetti per sempre o per un lungo periodo assume sempre meno importanza, questa tendenza è confermatada 6 intervistati su 10 in tutti i paesi.  Sono tre gli aspetti fondamentali a cui prestano attenzione gli italiani nella scelta del sito dove vendere gli oggetti di seconda mano: la sicurezza dei pagamenti (51%), la facilità di utilizzo (43%) e la popularità del sito (39%). La sicurezza dei pagamenti assume una maggiore importanza (62%) soprattutto tra le persone interessate a vendere in futuro. Un altro aspetto che emerge dalla ricerca è la tendenza sociale: sempre più persone credono in questa nuova economia di condivisione, affidandosi all’online e in particolare ad eBay, per rivendere e comprare beni. A spingere a questo comportamento non è solo il fattore economico, che pesa comunque per il 50% degli intervistati, ma incide molto anche la propensione a seguire uno stile di vita più sostenibile che si realizza attraverso l’utilizzo “temporaneo” degli oggetti o la condivisione, tipica della sharing economy. La ricerca di Ipsos per eBay rivela che l’80% degli intervistati nei tre Paesi analizzati è coinvolto in almeno una pratica di economia partecipativa. “eBay è un motore della sharing economy e da oltre 21 anni connette milioni di venditori – professionali e non – e acquirenti in tutto il mondo, dando grande rilevanza al ruolo delle persone e creando innumerevoli opportunità per tutti” – spiega Iryna Pavlova Responsabile comunicazione di eBay in Italia – “eBay è stata la prima piattaforma online a creare questo modello di business che negli anni si è evoluto”. L’attitudine alla condivisione è una caratteristica radicata tra gli utenti di eBay: la ricerca Ipsos mostra che tendono a partecipare a più attività collaborative rispetto alla media e agli utilizzatori di alte piattaforme online. i”Il 52% degli “eBayer” italiani ha provato il baratto (contro il 44% degli utilizzatori di altri siti e il 23% della media nazionale) e il 46% ha alloggiato in case altrui (28% di media nazionale). Dalla ricerca emerge, inoltre, che tra i venditori italiani a ricavare più denaro dalle vendite online sono i 35-44enni: 164 euro di media contro i 99 euro degli under 24. In Francia i numeri 1 sono i 25-34enni con 133 euro di media contro i 93 euro degli under 24. In Spagna, invece, le differenze più significative sono quelle geografiche: gli abitanti delle regioni centrali ricavano dalle vendite online mediamente 195 euro contro gli 88 euro di quelli che vivono nel nord-ovest.Ma la situazione è in forte evoluzione perché sono soprattutto i giovani a dirsi disposti a utilizzare il web per vendere qualsiasi tipo di bene: lo dichiara l’84% degli under 35enni contro il 70% degli over 60.   Sono tre le motivazioni principali rilevate a livello internazionale dalla ricerca che stanno alla base del decluttering: ragioni pratiche (problemi di spazio), ragioni economiche (guadagno) e facilità (consumatore al centro). Ma ogni Paese ha le sue peculiarità: per i Francesi è decisivo evitare gli sprechi e dare una nuova possibilità di utilizzo degli oggetti, per gli spagnoli è importante partecipare a un nuovo modello di società, mentre per gli Italiani è prioritario sgombrare la propria casa dagli oggetti inutilizzati.
 

L’home sharing è rosa. Il 55% degli host di Airbnb sono donne 


L’home sharing è rosa, questo è in estrema sintesi il contenuto del report (dal titolo Women hosts adn Airbnb: building a global community) che sarà pubblicato domani in occasione della festa della donna dal colosso della sharing economy Airbnb, ma già disponibile sul sito AirbnbCitizen. Lo studio mostra che le donne, che rappresentano il 55% degli host totali di Airbnb, hanno guadagnato dal 2008 a oggi tramite Il marketplace fondato da Bryan Chesky  oltre 10 miliardi di US dollari. Nel 2016 ogni donna host ha guadagnato in media: negli USA: $ 6.600 USD, in Spagna: $ 3,600 USD (3.290 euro), in Sud Africa circa $ 2,000 USD (25.380 ZAR) e in Brasile: $ 1,750 USD (5.840 reais). Questo reddito supplementare può essere particolarmente significativo nei paesi con economie in via di sviluppo. In Kenya, ad esempio, ogni donna in media dall’attività di host guadagna abbastanza  per coprire più di un terzo della spesa media annua della propria famiglia, in India il reddito ottenuto dalla propria attività di hosting copre il 31% e in Marocco, il 20%. Airbnb stima, inoltre, che oltre 50 mila donne di tutto il mondo hanno utilizzato il reddito prodotto tramite Airbnb per sostenere la propria imprenditorialità oppure per avviare un nuovo lavoro o per investire in un nuovo business. Le donne, infine, sono leader indiscusse della community Airbnb: il 59%di Superhost sono donne, oltre il 60% degli Home Sharing Club hanno a capo una donna, e le donne rappresentano il 61% dei padroni di casa che hanno condotto workshop e corsi di hosting nel corso del 2016.  

Nell’ultimo anno il 24% degli statunitensi ha guadagnato soldi con gig economy, ecommerce e sharing economy


Il 24% degli americani nel corso degli ultimi dodici mesi ha guadagnato soldi attraverso una piattaforma di gig economy, sharing economy o di eCommerce. Questi dati emergono da una ricerca condotta dal Pew Research Center su una panel di statunitensi adulti. Il reddito generato da questo tipo di attività per alcuni rappresenta un extra budget mentre per altri è servito a rispondere a alcune necessità personali. Da tuttofare a programmatore di computer, da autista per operatori di ride sharing (Uber o Lyft ad esempio) a consegna di cibo, gli americani si sono oramai da tempo aperti a queste forme di lavoro al posto o in aggiunta al tradizionale lavoro dipendente. Queste forme lavorative hanno talmente preso campo che la loro tutela -come SocialEconomy via ha raccontato – è entrata a far parte dei dibattiti elettorali per le recenti elezioni presidenziali USA che hanno visto il trionfo di Donald Trump. Il successo di queste lavoretti è stato possibile grazie alla grande varietà di piattaforme di vario tipo che oggi vivono sui canali digitali e che consentono agli utenti di guadagnare denaro condividendo il proprio tempo per svolgere lavori occasionali, vendere i propri beni usati o le proprie produzioni artigianali oppure condividendo beni o servizi. Dallo studio emerge che quasi un americano su dieci (8%) ha guadagnato denaro nel corso dell’ultimo anno utilizzando piattaforme digitali per svolgere un lavoro o un’attività; quasi uno su cinque  (18%) ha guadagnato denaro nell’ultimo anno vendendo qualcosa online, mentre l’1% ha affittato le propria proprietà su un sito di home sharing (come Airbnb ad esempio). Sommando tutti coloro che hanno effettuato almeno una di queste tre attività, si arriva a circa il 24% degli adulti americani, quasi uno statunitense su quattro, che ha guadagnato soldi nel corso dell’ultimo anno con quella che nello studio viene definita “economia della piattaforma”. Come detto, all’interno di questo 24% ci sono coloro che si affidano a questa forma integrativa di entrate in modo occasionale occupando così il proprio tempo libero e coloro che, invece, fanno ricorso a questa tipologia di lavoro in modo abituale. 

Questi risultati dell’indagine evidenziano alcuni temi chiave legati all'”economia della piattaforma”. In primo luogo, illustra la grande varietà di modi in cui gli americani hanno guadagnato soldi da diverse piattaforme digitali. Nel caso della gig economy on demand (l’economia dei piccoli lavori su richiesta), il 5% degli americani indica che si è guadagnato i soldi da una piattaforma di lavoro nel corso dell’ultimo anno per fare attività online (ciò include potenziamente qualsiasi cosa, da lavori IT a indagini o data entry. Alcuni, il 2%, degli americani hanno guadagnato soldi con la guida di attività di ride sharing, mentre l’1% ciascuno ha usato queste piattaforme per eseguire attività commerciali o di consegna, così come le attività di pulizia o di lavanderia. Un ulteriore 2%, infine, ha fatto una grande varietà di lavoretti che non rientrano in nessuno di questi quattro gruppi. Secondo elemento che rileva questa indagine sono le differenze marcate tra gli americani che guadagnano soldi dalle piattaforme di lavoro in cui gli utenti contribuiscono con il proprio tempo e fatica rispetto a coloro che guadagnano soldi da piattaforme di capitale in cui contribuiscono con le proprie merci o beni. La partecipazione a piattaforme di lavoro, per esempio, sono più comuni tra i neri e latinos che tra i bianchi, sono più diffuse tra coloro che hanno un reddito familiare basso rispetto a quelli con redditi alti e sono più diffuse tra i giovani adulti rispetto a qualsiasi altro cluster di età. Quando si tratta di piattaforme di capitale come la vendita on-line, è vero il contrario: la vendita online è più diffusa tra i bianchi che i neri, è più comune tra i benestanti e istruita rispetto a quelli con livelli più bassi di reddito e di istruzione, ed è praticata da persone con età trasversali. Circa il 60% degli utenti delle piattaforme di gig economy dicono che i soldi che guadagnano da questi siti è “essenziale” o “importante” per la propria situazione finanziaria complessiva, ma solo uno su cinque venditori online (20%) descrivere i soldi che guadagna negli stessi termini. La terza evidenza della ricerca riguarda la parte economica di queste attività. Nel caso di lavori gig, i lavoratori che descrivono il reddito che guadagnano da queste piattaforme come” essenziale “o” importante “sono coloro che provengono da famiglie a basso reddito, non-bianchi e che non hanno frequentato l’università . Essi hanno meno probabilità di eseguire attività on-line ma più probabilmente sceglieranno come lavoretti ride attività fisiche come il ride, lavori di pulizia e di lavanderia. Essi sono anche significativamente più propensi a dire che sono motivati a fare questo tipo di lavoro perché hanno bisogno di essere in grado di controllare la propria agenda (questi lavoro sono prestati su base volontaria su richiesta e quindi occupano lassi temporali ben determinato) o perché non ci sono molti altri posti di lavoro a loro disposizione. Come quarto punto l’indagine rileva che il grande pubblico ha una vista decisamente contrastanti riguardo posti di lavoro nella gig economy. Da un lato, la maggioranza degli americani ritiene che questi posti di lavoro sono buone opzioni per le persone che vogliono un lavoro flessibile (68%) o per gli adulti più anziani che non vogliono più lavorare a tempo pieno (54%). D’altra parte, circa a uno su cinque ritiene che questi posti di lavoro pongono troppo oneri finanziari a carico dei lavoratori (21%) e lasciano che le aziende approfittano dei lavoratori (23%), mentre solo il 16% ritiene che questo tipo di lavoro offre posti di lavoro. Infine, dalla ricerca emerge anche che il 23% di coloro che utilizzano piattaforme “gig” per il lavoro sono studenti; la maggioranza si descrivono come essere impiegato a tempo pieno (44%) o part-time (24%), mentre il 32% dichiara di non essere impiegati; Uno su cinque venditori online (19%) affermano che i social media sono estremamente importanti come mezzi di supporto alla vendita dei propri prodotti. In particolare sono le  donne che vendono online a dire che si basano sui social media; Il 26% degli utenti delle piattaforme gig si considerano  dipendenti dei servizi che usano per trovare lavoro e il 68% si vedono come imprenditori indipendenti.; Il 29% dei lavoratori gig non ha ricevuto il pagamento che gli sarebbe spettato per aver svolto un’attività.

Da Likibu ecco il bilancio dell’estate dell’home sharing in Italia e in Europa


Likibu, il primo comparatore di offerte dedicato alla ricerca di molteplici offerte di home sharing,  ha analizzato le abitudini di consumo degli italiani e degli europei relativamente all’estate 2016. Sulla base di un campione di 400 mila richieste di prenotazione di alloggi vacanze per i soggiorni nei mesi di luglio e agosto 2016, Likibu è quindi in grado di svelare quali sono state le tendenze registrate nell’estate oramai quasi al termine e tratteggiare un bilancio della stagione. Dallo studio emerge che il budget medio degli europei rilevato per un soggiorno di almeno una settimana in periodo estivo raggiunge i 1.047 €. Gli italiani sono sopra la media con 1.014 Euro, mentre gli Inglesi sono molto al di sopra della media con 1.228 Euro. La durata di un soggiorno per le vacanze degli europei è in media di 8,5 giorni. Una media elevata grazie agli inglesi (9,13 giorni) e ai francesi (9 giorni). Gli spagnoli (7,3 giorni), invece, abbassano leggermente la media. I tedeschi (8,2 giorni) o gli italiani (8,5 giorni), infine, si posizionano all’interno della media europea. Per quanto riguarda la durata delle vacanze, dai dati emerge che più della metà dei turisti italiani approfitta delle vacanze per soggiorni di media durata (6/9 giorni) mentre molto meno numerosi sono i vacanzieri che partono per soggiorni superiori alle 10 notti. Per quanto riguarda le mete l’Italia – secondo questa analisi – resta il paese più gettonato dagli italiani per le vacanze estive (30% delle ricerche). Inoltre, il Bel Paese si colloca in terza posizione tra i paesi più ricercati dagli europei (12%), dopo la Francia (23%) e la Spagna (32%) e davanti alla Grecia e alla vicina Croazia. Veniamo invece al budget che gli italiani hanno dedicato all’alloggio durante le vacanza: inaspettatamente durante l’estate 2016 gli affitti più cari si sono registrati in Grecia (1.400 euro a settimana), la media italiana è di 945 euro per 7 giorni. Paese piu low cost la Croazia con una spesa media di 646 euro. Guardando esclusivamente all’Italia, il budget medio più elevato per un alloggio vacanze nei mesi di luglio/agosto per circa una decina di giorni è stato speso per San Teodoro. I vacanzieri hanno infatti versato in media 1106€ per l’affitto in questa splendida località sarda, seguita dal Cilento, dall’Isola d’Elba e da Celafù in Sicilia (tra gli 817€ e i 750€). Infine, altro luogo molto gettonato per chi ha scelto le vacanze in Italia è Gallipoli: la spesa media per quest’ultima si è aggirata sui 567€, situandosi dunque fra le mete più economiche del 2016.  Likibu è un motore di ricerca che è stato sviluppato in Francia che integra al proprio interno più di 25 siti partner tra cui quelli del Gruppo HomeAway, Booking e altri leader del settore che da accesso a oltre 3,5 milioni di locazioni vacanze e home sharing, l’affitto di abitazioni dell’era della sharing economy, referenziate in tutto il mondo.
 

GoCambio al via la piattaforma in italiano

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La sharing economy, come vi abbiamo raccontato più volte, rende possibile usufruire di molteplici servizi a costo zero. Anche il mondo del l’apprendimento e dei viaggi non è esente da questo cambiamento epocale generato dall’economia della condivisione. Un esempio concreto, alternativo alle classiche vacanze-studio arriva dall’Irlanda. GoCambio, la società irlandese nata per mettere in contatto le persone che vogliono viaggiare gratuitamente con quelle che vogliono apprendere o migliorare una lingua straniera altrettanto gratuitamente, ha deciso di puntare sulla crescita nel mercato italiano. La società fondata da Ian O’Sullivan per rendersi maggiormente attrattiva agli utenti italici ha, infatti, varato la versione italiana della propria piattaforma. Il funzionamento di GoCambio è molto semplice: attraverso il sito web gli utenti maggiorenni possono iscriversi come host (per ospitare gratuitamente e ricevere in cambio un paio di ore di conversazione in lingua al giorno) o come guest (per essere ospitati e quindi fare a costro zero una esperienza di viaggio attraverso le abitudini della gente del posto). Una volta creato il proprio profilo l’utente può iniziare la ricerca del potenziale host/guest inserendo i diversi criteri di scelta al fine di selezionare i profili più compatibili. Il passo successivo sarà quello di prendere contatto con la propria controparte attraverso Skype, Facebook o altri social media e inviargli una proposta di baratto ospitalità/lezioni. L’idea di GoCambio nasce da Ian O’Sullivan e sua sorella Deirdre Bounds, già fondatori della più grande piattaforma di viaggi e scambi per studenti, i-to-i. Nello specifico l’idea è nata durante una passeggiata domenicale lungo le scogliere di County Waterford in Irlanda, dove vive Ian O’Sullivan. I due passeggiando si sono chiesti perché la gente debba spendere tanti soldi in lezioni di lingua all’estero e di quanto fosse difficile trovare un tutor di conversazione in lingua straniera. Da qui l’idea di mettere in contatto le persone che in tutto il mondo vogliono migliorare la propria capacità di parlare una lingua straniera con coloro che viaggiano in modo indipendente per creare una grande community e aiutare alcune persone a imparare spendendo meno e altre a viaggiare low cost

Il car sharing e il car pooling hanno conquistato gli italiani

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L’idea di automobile privata lascia spazio al nuovo concetto di automobile condivisa e alla sharing economy e apre scenari completamente inediti in tema di servizi, concorrenza e tutela dei consumatori. Se ne è discusso nel corso di una tavola rotonda con le aziende leader del settore – Uber, BlaBlaCar, Car2Go, Enjoy, Letzgo – e con i rappresentanti della politica e delle istituzioni organizzata presso la Biblioteca della Camera dei Deputati da Digiconsum, associazione attiva nella difesa dei diritti dei consumatori digitali, e Fleed Digital Consulting, Nel corso della giornata è stata inoltre presentata #VIENIVIACONME – Gli italiani e le nuove forme di mobilità condivisa, indagine realizzata da Fleed Digital Consulting che analizza le opinioni degli italiani sui temi del car sharing e del car pooling partendo dai commenti e dalle discussioni avvenute in Rete.

La ricerca, che si basa sul monitoraggio di un panel di oltre 100mila fonti web in lingua italiana, ha permesso di rilevare in otto mesi di analisi (da gennaio ad agosto 2015) oltre 106mila conversazioni sensibili tra UGC (Users Generated Contents, con particolare riferimento a contenuti Facebook e Twitter) e contenuti 1.0 (articoli pubblicati su testate web e blog).

Dallo studio, che ha monitorato i maggiori operatori dei comparti del car sharing e del car pooling in Italia, emerge come gli utenti dimostrino di essere ben informati sulle offerte dei provider di settore e a proprio agio con le tecnologie della mobilità: molto frequenti infatti sono la condivisione di informazioni relative alla comparazione dei costi e l’iscrizione contemporanea ai servizi di più provider. L’analisi delle conversazioni online permette inoltre di individuare quelli che possono essere letti come veri e propri “appelli” rivolti dalla rete alle istituzioni e alle aziende.

Scendo più in dettaglio dallo studio emerge che gli utenti giudicano l’attuale legislazione antiquata e sostanzialmente inadatta a regolamentare il fenomeno della mobilità condivisa. Nondimeno, è un auspicio della maggioranza di essi (oltre il 60% del totale) che vi sia un intervento organico e complessivo del legislatore volto a dare maggiore coerenza al contesto regolatorio e maggiore sicurezza al cittadino in ordine ai propri diritti e doveri. Si richiede inoltre un ruolo maggiormente attivo del Governo per rendere più completa l’offerta di servizi oggi polarizzata al Nord-Centro (come già vi aveva raccontato SocialEconomy) ed esclusivamente sui grandi poli cittadini, e una maggiore prontezza delle amministrazioni locali per colmare quelle che vengono viste come disparità centro-periferia nell’erogazione dei servizi di car sharing e car pooling.

La Rete dà un giudizio positivo sui livelli di servizio dei provider della mobilità condivisa, ma evidenzia anche in modo piuttosto netto dei driver di miglioramento. Dal mondo dei forum e dei social media emerge in particolare il suggerimento alle imprese di fare maggior uso di quelle funzionalità di community, come ad esempio il voting e “l’indice di affidabilità condivisa”, che consentano agli utenti di autogestirsi, isolando i “guastatori” e, quindi, evitando che l’intero parco utenti sconti comportamenti scorretti o peggio ancora fuorilegge. Questo naturalmente anche al fine di scongiurare l’eventualità di un abbandono della città da parte dei provider, ipotesi diffusa in rete dai media e commentata con molta preoccupazione dagli utenti. Molti suggerimenti sono anzi giunti in merito allo svolgimento da parte delle imprese di sondaggi preventivi in rete circa l’apertura al servizio di nuove aree geografiche. Altrettante richieste giungono per lo sviluppo di piani fedeltà con relativi sconti per heavy user, e per l’aggiornamento delle logiche del customer care, soprattutto in senso premiante per chi contribuisce con segnalazioni utili o comportamenti virtuosi.

I numeri della report

  • Oltre 106mila discussioni web rilevate sul tema
  • Car sharing e car pooling sono temi decisamente molto discussi: le fonti web che hanno trattato il tema del Car Sharing e del Car Pooling sono oltre 2.500
  • Le discussioni si distinguono per essere marcatamente social: l’85% dei contenuti rilevati proviene infatti dai social network
  • Twitter è in assoluto il canale più utilizzato: oltre 89mila i tweet rilevati per mezzo miliardo di potenziali visualizzazioni
  • I blog e i forum sui quali si è dibattuto in tema di Car Sharing e del Car Pooling sono oltre 1.500

Link per scaricare intero report http://www.fleed.it/vieniviaconme-gli-italiani-e-le-nuove-forme-di-mobilita-condivisa/

In USA la sharing economy stenta a conquistare la fiducia dei viaggiatori business

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I viaggiatori d’affari statunitensi stanno tardando a utilizzare i servizi di sharing economy. Questa la “sentenza” che emerge dalla ricerca condotta su mille persone che viaggiano per lavoro da On Call International, una delle principali società di gestione del rischio di viaggio. Solo il 12% dei viaggiatori d’affari intervistati hanno usato un servizio di ride sharing come Uber e Lyft come alternativa al taxi durante un viaggio di lavoro. Inoltre, solo il 4% hanno soggiornato in un alloggio prenotato tramite Airbnb per un viaggio d’affari preferendo invece il soggiorno in hotel. I risultati dello studio indicano che le preoccupazioni attinenti alla sicurezza possono contribuire al poco utilizzo dei servizi sharing, anche se molti viaggiatori business ritengono questi servizi altrettanto sicuri come quelli dei tradizionali concorrenti della old economy. Secondo l’indagine, solo il 7% dei business traveler intervistati reputa più sicuro Uber rispetto al taxi, mentre soltanto il 2% ritiene la sistemazione prenotata tramite Airbnb più sicura rispetto al pernottamento alberghiero. Nonostante queste preoccupazioni sul tema della sicurezza, molti viaggiatori d’affari ritengono, comunque, l’economia della condivisione altrettanto sicura al pari dei corrispondenti servizi tradizionali. La maggioranza (55%) degli intervistati ritiene che i taxi e i servizi autorizzati come Uber sono parimenti sicuri, mentre il 44% crede che il pernottamento in un albergo presenta la stesso livello di rischio di un alloggio Airbnb, affermando, in ogni caso, che entrambe queste due opzioni sono sicure. Nel frattempo, i datori di lavoro sembrano indifferenti all’utilizzo da parte dei propri dipendenti dei servizi dell’economia condivisa: il 91% dei viaggiatori d’affari affermano che il loro datore di lavoro non ha mai fornito protocolli o linee guida di sicurezza per l’utilizzo questi servizi durante un viaggio d’affari, mentre, il 73% dice che la società per la quale lavorano non ha mai approfondito la possibilità di utilizzare i servizi sharing durante una trasferta di lavoro.

Airbnb: 69 milioni di Euro l’impatto economico su Atene

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Che impatto genera la
sharing economy su una città? Per rispondere a questa domanda, Airbnb, uno dei massimi player dell’economia condivisa, ha realizzato – per alcuni dei comuni in cui è presente – dei report in cui analizza l’effetto economico, sociale e sull’ambiente derivante dalla propria presenza. Socialeconomy vi racconterà in diverse puntate quanto emerge da queste ricerche iniziando il viaggio da Atene, una delle capitali europee che più ha risentito negli ultimi anni della congiuntura economica.
Lo studio, realizzato dalla società californiana, prende in esame il periodo che va da ottobre 2013 a settembre 2014 (mesi in cui la Grecia è stata guidata da Antonis Samaras che successivamente, nel 2015, ha lasciato il posto al leader di Syriza Alexis Tsipras) intervallo temporale in cui 720 host ateniesi hanno ospitato viaggiatori Airbnb per una media di 68 giorni all’anno. Il 31% dei proprietari di casa che hanno inserito il proprio immobile nella piattaforma di sharing si occupa di servizi nell’ambito di settori creativi (arte e design) mentre solo il 7% lavora nel mondo della finanza. L’impatto complessivo sull’economia della capitale greca è stato di 69 milioni di Euro, considerando sia le entrate arrivate direttamente agli host Airbnb dai guest ospitati, sia le spese indirette e indotte generate da coloro che hanno soggiornato attraverso la piattaforma. A livello di impatto sull’occupazione Airbnb ha supportato 1.060 posti di lavoro. Il 73% degli host non sono impiegati stabilmente e il 28% di loro ha dichiarato che le entrate generate dall’hosting sono servite per finanziare la propria attività di freelance oppure ad avviare una nuova attività. La maggioranza di quanto ricavato dall’affitto è comunque servita agli ateniesi per pagare le spese ordinarie delle proprie abitazioni e le tasse di proprietà immobiliare. Ricadute positive ci sono anche per i quartieri in cui sono situate le abitazioni: ogni ospite in media ha speso 218 euro nelle vicinanze del proprio alloggio durante il periodo di permanenza nella Comune guidato dal Sindaco Giorgos Kaminis. Ulteriore beneficio emerso dal sondaggio è quello sociale. Gli host hanno, infatti, evidenziato che uno dei vantaggi è l’arricchimento culturale derivante dall’aver ospitato cittadini stranieri con diverso background, cultura e lingua. Ultimo aspetto preso in esame da Airbnb è quello relativo all’impatto positivo sull’ambiente derivante dall’aver soggiornato in abitazioni anziché in tradizionali strutture ricettive: a livello energetico è stata risparmiata corrente elettrica pari a quella di 621 abitazioni; l’acqua consumata in meno è pari a quella necessaria per riempire 10 piscine olimpiche; mentre il risparmio in termine di minor rifiuti prodotti è stato misurato in 89 metri cubi di tonnellate.