
Qualche settimana fa su CapX, testata britannica che aggrega ogni giorno le migliori news da oltre 3,5 milioni di blog, giornali e testate accademiche fondato nel 2014 dal think tank Center for Policy Studies per promuovere il capitalismo democratico, è stato pubblicato un articolo in cui si argomentava sui perché in Italia la sharing economy sta facendo fatica a affermarsi. Autrice del pezzo è Beatrice Faleri, una studentessa italiana del King’s College di Londra e Senior Editor of Perspectives Contributor del collage.
SocialEconomy ha incontrato l’autrice per capire meglio il suo scetticismo sulla diffusione dell’economia della condivisione nel nostro Pese.
Nel suo articolo esprime in tre punti (sintetizzabili in a)poco senso civico b) paura di una reale libera concorrenza, c) paura del governo per le lobby che mirano a non incentivare la libera concorrenza) il perché in italia la sharing economy non decolla. Ci può articolare meglio questi tre punti?
Sicuramente ci sono problemi di fondo – debole crescita economica, peso della burocrazia, ecc – che influiscono in modo significativo sul “sottosviluppo” della sharing economy in Italia, tuttavia le ragioni che offro nel mio articolo sono quelle che si notano con maggiore evidenza osservando il contrasto fra l’Italia e il Regno Unito.
La mancanza di senso civico è, secondo me, fondamentale, e purtroppo molto difficile da eradicare. È un tratto tipicamente italiano che si nota in particolare per il contrasto con il resto d’Europa. Anche in una città cosmopolita e affollata come Londra, i graffiti sono pochi, le strade pulite e i servizi pubblici rispettati ed efficienti. Esemplare è il caso dei parchi: mentre a Londra sono mantenuti in maniera impeccabile e le varie attività che vi si svolgono attentamente vigilate, in Italia – e in particolare a Roma – i gradi parchi sono ridotti a uno stato di degrado mai visto prima. Certo, questo è anche una questione di amministrazione pubblica, ma c’è molto che i cittadini romani possono imparare dai londinesi. Il senso di responsabilità verso la comunità e l’ambiente urbano è infatti assolutamente necessario per lo sviluppo della sharing economy.
Per quanto riguarda la lotta di albergatori, tassisti e altri contro la concorrenza sleale di Airbnb, Uber ecc; credo che anche questo sia un tratto tristemente italiano. Le tasse eccessivamente alte e la pletora di parametri, requisiti, qualifiche e misure a cui si devono conformare le attività economiche regolamentate dallo stato rendono la nascita di nuove imprese estremamente difficile, e mantengono i prezzi dei servizi artificialmente alti.Credo che la risposta violenta di tassisti e albergatori a Uber e Airbnb, accusati di concorrenza sleale, sia una reazione comune in un epoca di profonodo cambiamento economico e tecnologico. Soprattutto i settori dei trasporti e dell’ospitalità stanno cambiando profondamente e votandosi a nuovi modelli di business, rendendo quelli tradizionali obsoleti: come in ogni ‘rivoluzione tecnologica’ vi è un momento di passaggio e forte attrito fra modelli economici antiquati e innovativi. In Italia stiamo attraversando questo momento di passaggio, e ci vorrà del tempo prima che l’economia e la società si adattino al cambiamento.
Il governo, d’altro canto, è ancora fortemente sbilanciato a favore di queste lobby, che attraverso scioperi e donazioni possono influenzare profondamente l’operato politico.
La diffidenza verso il libero mercato è, infine, uno dei tratti fondamentali che dividono nord e sud. Ha radici nelle vicissitudini storiche della penisola e influisce in buona parte alle differenze economico-sociali tuttora esistenti nel paese.
In alcune città i servizi sharing sono vittime di atti vandalici. Lei crede che questo farà fuggire quelle società (soprattutto quelle straniere) che avrebbero avuto voglia di investire o quelle che hanno già investito in italia nel settore dell’economia della condivisione?
Sarebbe un peccato se queste società abbandonassero un mercato così ricco di potenziale come quello italiano. Dubito che nonostante gli atti vandalici, aziende come Car2Go rinuncino del tutto all’Italia, ma è possibile che i loro servizi vengano meno in città dove l’uso improprio di questi sia più frequente. Credo, comunque, che l’Italia debba puntare a attività di condivisione che responsabilizzino chi usufruisce del servizio. In progetti come il car sharing, infatti, il servizio viene offerto da un’azienda, in un modello che prevede la condivisione ‘dall’alto verso il basso’. Attività come Airbnb e Blabla Car, invece, fanno si che i cittadini possano sia offrire che usufruire del servizio in questione. Questo tipo di attività, che disincentivano il vandalismo, sono il punto di partenza per un processo di responsabilizzazione sociale su cui bisognerebbe puntare per realizzare un modello di sharing economy di successo in Italia.
Sarebbe necessario a suo giudizio un atto politico del governo italiano che sostenga senza mezzi termini la creazione di nuove iniziative imprenditoriali nel settore della sharingeconomy?
La nascita della sharing economy è un processo prima di tutto spontaneo. I servizi di condivisioni sono creati e si sviluppano inizialmente dove c’è necessità, e si innestano nel tessuto socio-economico di una comunità in modo diverso, a seconda delle varie condizioni economiche, tecnologiche, sociali e culturali che incontrano. Per questo sono restia a suggerire che uno sforzo centralizzato, che non faccia differenze fra i livelli di sviluppo di tali condizioni nelle varie città possa avere sicuro successo. Una volta che si vengano a creare dei nuclei di crescita della sharing economy, tuttavia, è compito del governo di sostenere tali sforzi e incoraggiare il loro sviluppo e affermazione. A mio parere, il problema fondamentale che le piccole imprese innovative incontrano in Italia, a prescindere che siano organizzate sul modello della sharing economy o no – è il peso fiscale e della burocrazia che rende l’avvio e il primo sviluppo di un’impresa estremamente difficile. Il governo – che comunque ha fatto grandi progressi negli ultimi due anni nel riconoscere e analizzare lo sviluppo di progetti di condivisione – ha il compito di facilitare lo sviluppo di piccole imprese innovative e facilitare gli investimenti locali ed esteri.
Milano è un esempio di città che si è molto spesa nel supporto alla sharing economy. Conosce l’esprienza milanese? come la giudica?
Ho letto e sentito molto degli (ottimi, da quanto ho sentito) servizi di sharing economy a Milano. So, da fonti esterne, che soprattutto in vista dell’EXPO in città sono nate numerosissime iniziative volte a sviluppare tali servizi e dare l’opportunità ai visitatori di conoscere Milano con gli occhi dei cittadini. Un progetto su tutti è Sharexpo, organizzato dall’aministrazione e dai cittadini milanesi per favorire iniziative di condivisione di auto, cucine, camere private.
Nel mio articolo collego lo sviluppo della sharing economy a Milano con le radici storiche e culturali della città. Guida, insieme a Torino, della rivoluzione industriale italiana nel diciannovesimo secolo, Milano si è distinta come centro culturale e economico di intellettuali liberisti e imprenditori. Lo spirito di innovazione, libero mercato e progresso non ha abbandonato Milano che ancora oggi è in cima alla classifica italiana per i servizi di sharing economy.
Se la sente di suggerire, con gli occhi di chi osserva l’Italia dall’estero, una ricetta che possa favorire la l’economia della condivisione?
Come ho detto, riduzione del peso burocratico su piccole e medie imprese, agevolazioni per le startup, regolamentazione che non soffochi le nuove imprese e in generale, apertura verso progetti innovativi.
Nel suo articolo prevede che anche nella sharing economy ci possa essere un’Italia a due velocità con il nord che corre e il sud che stenta. Come si può evitare questo?
Penso che in questo momento il divario fra nord e sud per quanto riguarda lo sviluppo della sharing economy non possa essere evitato. Non è un caso che questo tipo di attività fioriscono soprattutto in città relativamente ricche, avanzate dal punto di vista culturale e digitale, meglio se con un forte senso di comunità (l’ambiente urbano è necessario alla sharing economy, per questo è più difficile parlare di paesi). Queste caratteristiche, purtroppo, mancano in molte città del sud, compresa Roma, che comunque devono affrontare problemi ben più importanti e radicati. Sono dell’idea che per il momento si debba lasciare che le diverse città italiane promuovano tali servizi indipendentemente, e allo stesso tempo si individuino e combattano i problemi delle città del sud alle loro radici. I progetti della sharing economy nascono, in genere, spontaneamente, e necessitano di alcune condizioni di base che molte città del Sud ancora non possono offrire.
Ci sonoi stati alcuni provvedimenti giudiziari (caso uber) oppure un atto del del ministero dello sviluppo economico che obbliga chi cucina a casa propria (caso Gnammo) al pagamento e alla presentazione di una dichiarazione di inizio attività che fanno riflettere sulla necessità di una normativa per regolamentare i servizi di sharing. Lei sarebbe favorevole o pensa che ci possa essere il rischio di ingessare una forma di economia nascente?
Per quanto riguarda casi come Gnammo, Airbnb o UberX/UberPop, credo che ci sia un errore di fondo nell’etichettare come una attività economica tradizionale. Il fondamento della sharing economy è proprio il suo aspetto informale, spontaneo e flessibile che non è replicato da nessun altro modello di business. Regolamentando rigidamente queste caratteristiche, si rischierebbe di soffocare, o comunque impedire la piena realizzazione, dei progetti legati all’economia condivisa. Molti si lamentano che imprese non regolate possano bypassare alcuni requisiti legali a cui le imprese tradizionali devono attenersi (standard igienici, qualificazioni ecc.). La soluzione potrebbe essere una forma di legislazione interna come quella nata nel Regno Unito (SEUK è una piattaforma legale e amministrativa con un codice preciso che unisce le varie attività e imprese di sharing economy), oppure un programma di regolamentazione ad hoc, che tenga conto delle caratteristiche fondamentali dei servizi condivisi e la loro differenza dal modello di business tradizionale.
Ci sono alcuni studi (Airbnb su impatto su Atene e Madrid o uno pubblicato in UK realizzato da Intuit) che hanno calcolato il ritorno economico per i soggetti privati che decidono di diventari attori della sharing economy. Secondo lei la sharing economy può essere un mezzo che può contribuire, in una fase non felicissima per l’economia e per le famiglie italiane, alla ripresa economica e indirettamente a spingere i consumi?
Sono fermamente convinta che la sharing economy possa contribuire in modo significativo alla ripresa economica di determinate comunità e centri urbani, nonostante lo sviluppo del settore non sia abbastanza omogeneo da garantire e guidare la ripresa dell’intero Paese. Come ho detto sono necessarie alcune condizioni – accesso a internet e avanzamento tecnologico in primis – ma soddisfatte queste io credo che ci sia un grande potenziale per le famiglie italiane di trarre profitto dalle attività di sharing. Affittare una stanza in disuso, offrire la propria cucina e la propria tavola, condividere un viaggio in macchina per risparmiare sul carburante sono tutte attività che possono aiutare in modo sostanziale una nuova spinta ai consumi. Per questo ritengo che legislazioni e regolamentazioni troppo rigide possano essere particolarmente dannose: molto spesso sono famiglie o singoli che svolgono questo genere di attività per arrotondare, o come secondo lavoro, e in quanto tali queste iniziative non possono essere regolate e tassate come business tradizionali. La sharing economy è un esempio di capitalismo democratico, a cui tutti possono partecipare investendo una parte modesta di capitale, molto spesso ‘immobile’ fino a quel momento (una camera in disuso, per esempio), condividendolo con la comunità a prezzi competitivi e generando profitti per sé e per gli altri. Inoltre, e questo è un punto che è importante sottolineare, le attività della sharing economy potrebbero essere la risposta all’insostenibilità del modello economico di mainstream. Condividere – invece di semplicemente sfruttare – oggetti e servizi permette di risparmiare su risorse e costi e potrebbe risultare nell’evoluzione del modello capitalista in uno nuovo, più sostenibile a livello economico e ambientale.
In Usa la sharing economy è entrata nel dibattito tra i possibili candidati alle prossime elezioni per la presidenza USA relativamente alla tutela dei lavoratori. ha una posizione in merito?
Credo che la posizioni più chiare sulla sharing economy siano state offerte dai candidati democratici Clinton e Sanders. Sanders in particolare è rimasto fedele ai suoi ideali politici nel dichiarare ferma opposizione a imprese del genere, per timore delle ripercussioni negative per gli impiegati, che in aziende come Uber non possono usufruire di contributi, protezioni e i cui diritti lavorativi sono poco chiari. D’altro canto Clinton ha sì, espresso preoccupazione per quanto rigaurda i rischi che corrono gli impiegati ‘irregolari’ di compagnie come Uber, ma si è anche detta consapevole delle potenzialità della sharing economy nello sviluppo di nuovi servizi innovativi e nella creazione di servizi condivisi che siano di beneficio alla comunità. Alcuni Repubblicani, tradizionalmente pro-business, si sono dichiarati a favore della sharing economy, ma non hanno offerto spunti particolarmente originiali per la discussione. Mi aspetto comunque che i due candidati per le elezioni di Novembre 2016 dovranno affrontare il tema con particlolare attenzione: la sharing economy è nata proprio nel polo d’innovazione americano della Sylicon Valley, ed è tutt’oggi un argomento che divide l’opinione pubblica. Ritengo comunque che un approccio alla Clinton, cautamente favorevole, sia preferibile a un soffocamento definitivo delle varie compagnie che offrono servizi di sharing economy. Gli Stati Uniti sono da sempre all’avanguardia nell’innovazione economica, e credo che l’intervento del nuovo presidente sarà fondamentale per preservare, incoraggiare e regolare (poco e dove serve) la sharing economy, ed essere da esempio ad altri governi alle prese con simili problematiche.
Ultima domanda: a Londra, la città in cui vive, qual è lo stato di salute dell’economia della condivisione? ci sono società/servizi ai quali l’Italia potrebbe ispirarsi?
Londra è da sempre città d’avanguardia, e dunque una delle prime a sperimentare con la sharing economy. Il servizio di bike sharing è particolarmente popolare e funziona perfettamente, ma in generale la stragrande maggioranza delle attività innovative e delle startups nasce ed è incubato nell’ambiente cosmopolita londinese. Molto popolari sono anche i servizi di peer-to-peer lending, che sono estremamente utili per la nascita e lo sviluppo di ancora nuove imprese. Il sistema della sharing economy londinese è esemplare in quanto, in generale, si mantiene e finanzia autonomamente attraverso crowdfunding e crowdsourcing, ma è comunque incoraggiato da un governo aperto al libero mercato e concentrato sull’innovazione. L’atmosfera giovane, dinamica e cosmopolita della città la rende un hub desiderabile per la nascita e lo sviluppo di attività di condivisione e sviluppo tecnologico. Anche il più recente impegno ecologico del sindaco Boris Johnson hanno causato maggiore popolarità in servizi di sharing sostenibili.
A Londra, inoltre, è stato fondato il SEUK (Sharing Economy UK), il primo tentativo spontaneo di unire e regolare i servizi di sharing economy nel paese. Questo tipo di iniziativa potrebbe essere la risposta al problema italiano della regolamentazione dei servizi di sharing; ma in generale è la mentalità anglosassone, e in particolare londinese, che gli italiani dovrebbero prendere a modello per un più fiorente sviluppo dell’economia della condivisione.
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