Gli italiani sono i più bravi nel guadagnare dalle vendite online di oggetti che non usano più, rivela una ricerca internazionale condotta da Ipsos per eBay. Nel 2016, benché abbiano sfruttato quest’opportunità meno di spagnoli e francesi, gli italiani sono però riusciti a ricavarne più denaro: 135 euro in media contro i 124 euro degli Spagnoli e 110 euro dei Francesi. Nonostante riescano a trarne maggior profitto, gli italiani rimangono ancora un po’ in ritardo in termini di vendite online – solo il 35% degli intervistati ha dichiarato, infatti, di aver già utilizzato piattaforme online per vendere gli oggetti inutilizzati (contro il 44% degli intervistati in Spagna e il 57% in Francia), ma sono intenzionati a recuperare lo svantaggio. Il 45% degli italiani si mostra volentieroso a ricorrere all’online per la vendita dei propri beni usati in futuro e ben il 50% afferma che venderà di più attraverso canali online. E’ dunque arrivato il momento per gli italiani di vendere di più attraverso il canale digital non solo per monetizzare ma anche per dare agli oggetti non utilizzati una seconda vita: evitare gli sprechi, adottare uno stile di vita più sostenibile e partecipare in modo attivo alla sharing economy. L’idea di possedere gli oggetti per sempre o per un lungo periodo assume sempre meno importanza, questa tendenza è confermatada 6 intervistati su 10 in tutti i paesi. Sono tre gli aspetti fondamentali a cui prestano attenzione gli italiani nella scelta del sito dove vendere gli oggetti di seconda mano: la sicurezza dei pagamenti (51%), la facilità di utilizzo (43%) e la popularità del sito (39%). La sicurezza dei pagamenti assume una maggiore importanza (62%) soprattutto tra le persone interessate a vendere in futuro. Un altro aspetto che emerge dalla ricerca è la tendenza sociale: sempre più persone credono in questa nuova economia di condivisione, affidandosi all’online e in particolare ad eBay, per rivendere e comprare beni. A spingere a questo comportamento non è solo il fattore economico, che pesa comunque per il 50% degli intervistati, ma incide molto anche la propensione a seguire uno stile di vita più sostenibile che si realizza attraverso l’utilizzo “temporaneo” degli oggetti o la condivisione, tipica della sharing economy. La ricerca di Ipsos per eBay rivela che l’80% degli intervistati nei tre Paesi analizzati è coinvolto in almeno una pratica di economia partecipativa. “eBay è un motore della sharing economy e da oltre 21 anni connette milioni di venditori – professionali e non – e acquirenti in tutto il mondo, dando grande rilevanza al ruolo delle persone e creando innumerevoli opportunità per tutti” – spiega Iryna Pavlova Responsabile comunicazione di eBay in Italia – “eBay è stata la prima piattaforma online a creare questo modello di business che negli anni si è evoluto”. L’attitudine alla condivisione è una caratteristica radicata tra gli utenti di eBay: la ricerca Ipsos mostra che tendono a partecipare a più attività collaborative rispetto alla media e agli utilizzatori di alte piattaforme online. i”Il 52% degli “eBayer” italiani ha provato il baratto (contro il 44% degli utilizzatori di altri siti e il 23% della media nazionale) e il 46% ha alloggiato in case altrui (28% di media nazionale). Dalla ricerca emerge, inoltre, che tra i venditori italiani a ricavare più denaro dalle vendite online sono i 35-44enni: 164 euro di media contro i 99 euro degli under 24. In Francia i numeri 1 sono i 25-34enni con 133 euro di media contro i 93 euro degli under 24. In Spagna, invece, le differenze più significative sono quelle geografiche: gli abitanti delle regioni centrali ricavano dalle vendite online mediamente 195 euro contro gli 88 euro di quelli che vivono nel nord-ovest.Ma la situazione è in forte evoluzione perché sono soprattutto i giovani a dirsi disposti a utilizzare il web per vendere qualsiasi tipo di bene: lo dichiara l’84% degli under 35enni contro il 70% degli over 60. Sono tre le motivazioni principali rilevate a livello internazionale dalla ricerca che stanno alla base del decluttering: ragioni pratiche (problemi di spazio), ragioni economiche (guadagno) e facilità (consumatore al centro). Ma ogni Paese ha le sue peculiarità: per i Francesi è decisivo evitare gli sprechi e dare una nuova possibilità di utilizzo degli oggetti, per gli spagnoli è importante partecipare a un nuovo modello di società, mentre per gli Italiani è prioritario sgombrare la propria casa dagli oggetti inutilizzati.
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Nell’ultimo anno il 24% degli statunitensi ha guadagnato soldi con gig economy, ecommerce e sharing economy
Il 24% degli americani nel corso degli ultimi dodici mesi ha guadagnato soldi attraverso una piattaforma di gig economy, sharing economy o di eCommerce. Questi dati emergono da una ricerca condotta dal Pew Research Center su una panel di statunitensi adulti. Il reddito generato da questo tipo di attività per alcuni rappresenta un extra budget mentre per altri è servito a rispondere a alcune necessità personali. Da tuttofare a programmatore di computer, da autista per operatori di ride sharing (Uber o Lyft ad esempio) a consegna di cibo, gli americani si sono oramai da tempo aperti a queste forme di lavoro al posto o in aggiunta al tradizionale lavoro dipendente. Queste forme lavorative hanno talmente preso campo che la loro tutela -come SocialEconomy via ha raccontato – è entrata a far parte dei dibattiti elettorali per le recenti elezioni presidenziali USA che hanno visto il trionfo di Donald Trump. Il successo di queste lavoretti è stato possibile grazie alla grande varietà di piattaforme di vario tipo che oggi vivono sui canali digitali e che consentono agli utenti di guadagnare denaro condividendo il proprio tempo per svolgere lavori occasionali, vendere i propri beni usati o le proprie produzioni artigianali oppure condividendo beni o servizi. Dallo studio emerge che quasi un americano su dieci (8%) ha guadagnato denaro nel corso dell’ultimo anno utilizzando piattaforme digitali per svolgere un lavoro o un’attività; quasi uno su cinque (18%) ha guadagnato denaro nell’ultimo anno vendendo qualcosa online, mentre l’1% ha affittato le propria proprietà su un sito di home sharing (come Airbnb ad esempio). Sommando tutti coloro che hanno effettuato almeno una di queste tre attività, si arriva a circa il 24% degli adulti americani, quasi uno statunitense su quattro, che ha guadagnato soldi nel corso dell’ultimo anno con quella che nello studio viene definita “economia della piattaforma”. Come detto, all’interno di questo 24% ci sono coloro che si affidano a questa forma integrativa di entrate in modo occasionale occupando così il proprio tempo libero e coloro che, invece, fanno ricorso a questa tipologia di lavoro in modo abituale.
Questi risultati dell’indagine evidenziano alcuni temi chiave legati all'”economia della piattaforma”. In primo luogo, illustra la grande varietà di modi in cui gli americani hanno guadagnato soldi da diverse piattaforme digitali. Nel caso della gig economy on demand (l’economia dei piccoli lavori su richiesta), il 5% degli americani indica che si è guadagnato i soldi da una piattaforma di lavoro nel corso dell’ultimo anno per fare attività online (ciò include potenziamente qualsiasi cosa, da lavori IT a indagini o data entry. Alcuni, il 2%, degli americani hanno guadagnato soldi con la guida di attività di ride sharing, mentre l’1% ciascuno ha usato queste piattaforme per eseguire attività commerciali o di consegna, così come le attività di pulizia o di lavanderia. Un ulteriore 2%, infine, ha fatto una grande varietà di lavoretti che non rientrano in nessuno di questi quattro gruppi. Secondo elemento che rileva questa indagine sono le differenze marcate tra gli americani che guadagnano soldi dalle piattaforme di lavoro in cui gli utenti contribuiscono con il proprio tempo e fatica rispetto a coloro che guadagnano soldi da piattaforme di capitale in cui contribuiscono con le proprie merci o beni. La partecipazione a piattaforme di lavoro, per esempio, sono più comuni tra i neri e latinos che tra i bianchi, sono più diffuse tra coloro che hanno un reddito familiare basso rispetto a quelli con redditi alti e sono più diffuse tra i giovani adulti rispetto a qualsiasi altro cluster di età. Quando si tratta di piattaforme di capitale come la vendita on-line, è vero il contrario: la vendita online è più diffusa tra i bianchi che i neri, è più comune tra i benestanti e istruita rispetto a quelli con livelli più bassi di reddito e di istruzione, ed è praticata da persone con età trasversali. Circa il 60% degli utenti delle piattaforme di gig economy dicono che i soldi che guadagnano da questi siti è “essenziale” o “importante” per la propria situazione finanziaria complessiva, ma solo uno su cinque venditori online (20%) descrivere i soldi che guadagna negli stessi termini. La terza evidenza della ricerca riguarda la parte economica di queste attività. Nel caso di lavori gig, i lavoratori che descrivono il reddito che guadagnano da queste piattaforme come” essenziale “o” importante “sono coloro che provengono da famiglie a basso reddito, non-bianchi e che non hanno frequentato l’università . Essi hanno meno probabilità di eseguire attività on-line ma più probabilmente sceglieranno come lavoretti ride attività fisiche come il ride, lavori di pulizia e di lavanderia. Essi sono anche significativamente più propensi a dire che sono motivati a fare questo tipo di lavoro perché hanno bisogno di essere in grado di controllare la propria agenda (questi lavoro sono prestati su base volontaria su richiesta e quindi occupano lassi temporali ben determinato) o perché non ci sono molti altri posti di lavoro a loro disposizione. Come quarto punto l’indagine rileva che il grande pubblico ha una vista decisamente contrastanti riguardo posti di lavoro nella gig economy. Da un lato, la maggioranza degli americani ritiene che questi posti di lavoro sono buone opzioni per le persone che vogliono un lavoro flessibile (68%) o per gli adulti più anziani che non vogliono più lavorare a tempo pieno (54%). D’altra parte, circa a uno su cinque ritiene che questi posti di lavoro pongono troppo oneri finanziari a carico dei lavoratori (21%) e lasciano che le aziende approfittano dei lavoratori (23%), mentre solo il 16% ritiene che questo tipo di lavoro offre posti di lavoro. Infine, dalla ricerca emerge anche che il 23% di coloro che utilizzano piattaforme “gig” per il lavoro sono studenti; la maggioranza si descrivono come essere impiegato a tempo pieno (44%) o part-time (24%), mentre il 32% dichiara di non essere impiegati; Uno su cinque venditori online (19%) affermano che i social media sono estremamente importanti come mezzi di supporto alla vendita dei propri prodotti. In particolare sono le donne che vendono online a dire che si basano sui social media; Il 26% degli utenti delle piattaforme gig si considerano dipendenti dei servizi che usano per trovare lavoro e il 68% si vedono come imprenditori indipendenti.; Il 29% dei lavoratori gig non ha ricevuto il pagamento che gli sarebbe spettato per aver svolto un’attività.
Riuscirà la sharing economy a decollare anche in Italia?
Qualche settimana fa su CapX, testata britannica che aggrega ogni giorno le migliori news da oltre 3,5 milioni di blog, giornali e testate accademiche fondato nel 2014 dal think tank Center for Policy Studies per promuovere il capitalismo democratico, è stato pubblicato un articolo in cui si argomentava sui perché in Italia la sharing economy sta facendo fatica a affermarsi. Autrice del pezzo è Beatrice Faleri, una studentessa italiana del King’s College di Londra e Senior Editor of Perspectives Contributor del collage.
SocialEconomy ha incontrato l’autrice per capire meglio il suo scetticismo sulla diffusione dell’economia della condivisione nel nostro Pese.
Nel suo articolo esprime in tre punti (sintetizzabili in a)poco senso civico b) paura di una reale libera concorrenza, c) paura del governo per le lobby che mirano a non incentivare la libera concorrenza) il perché in italia la sharing economy non decolla. Ci può articolare meglio questi tre punti?
Sicuramente ci sono problemi di fondo – debole crescita economica, peso della burocrazia, ecc – che influiscono in modo significativo sul “sottosviluppo” della sharing economy in Italia, tuttavia le ragioni che offro nel mio articolo sono quelle che si notano con maggiore evidenza osservando il contrasto fra l’Italia e il Regno Unito.
La mancanza di senso civico è, secondo me, fondamentale, e purtroppo molto difficile da eradicare. È un tratto tipicamente italiano che si nota in particolare per il contrasto con il resto d’Europa. Anche in una città cosmopolita e affollata come Londra, i graffiti sono pochi, le strade pulite e i servizi pubblici rispettati ed efficienti. Esemplare è il caso dei parchi: mentre a Londra sono mantenuti in maniera impeccabile e le varie attività che vi si svolgono attentamente vigilate, in Italia – e in particolare a Roma – i gradi parchi sono ridotti a uno stato di degrado mai visto prima. Certo, questo è anche una questione di amministrazione pubblica, ma c’è molto che i cittadini romani possono imparare dai londinesi. Il senso di responsabilità verso la comunità e l’ambiente urbano è infatti assolutamente necessario per lo sviluppo della sharing economy.
Per quanto riguarda la lotta di albergatori, tassisti e altri contro la concorrenza sleale di Airbnb, Uber ecc; credo che anche questo sia un tratto tristemente italiano. Le tasse eccessivamente alte e la pletora di parametri, requisiti, qualifiche e misure a cui si devono conformare le attività economiche regolamentate dallo stato rendono la nascita di nuove imprese estremamente difficile, e mantengono i prezzi dei servizi artificialmente alti.Credo che la risposta violenta di tassisti e albergatori a Uber e Airbnb, accusati di concorrenza sleale, sia una reazione comune in un epoca di profonodo cambiamento economico e tecnologico. Soprattutto i settori dei trasporti e dell’ospitalità stanno cambiando profondamente e votandosi a nuovi modelli di business, rendendo quelli tradizionali obsoleti: come in ogni ‘rivoluzione tecnologica’ vi è un momento di passaggio e forte attrito fra modelli economici antiquati e innovativi. In Italia stiamo attraversando questo momento di passaggio, e ci vorrà del tempo prima che l’economia e la società si adattino al cambiamento.
Il governo, d’altro canto, è ancora fortemente sbilanciato a favore di queste lobby, che attraverso scioperi e donazioni possono influenzare profondamente l’operato politico.
La diffidenza verso il libero mercato è, infine, uno dei tratti fondamentali che dividono nord e sud. Ha radici nelle vicissitudini storiche della penisola e influisce in buona parte alle differenze economico-sociali tuttora esistenti nel paese.
In alcune città i servizi sharing sono vittime di atti vandalici. Lei crede che questo farà fuggire quelle società (soprattutto quelle straniere) che avrebbero avuto voglia di investire o quelle che hanno già investito in italia nel settore dell’economia della condivisione?
Sarebbe un peccato se queste società abbandonassero un mercato così ricco di potenziale come quello italiano. Dubito che nonostante gli atti vandalici, aziende come Car2Go rinuncino del tutto all’Italia, ma è possibile che i loro servizi vengano meno in città dove l’uso improprio di questi sia più frequente. Credo, comunque, che l’Italia debba puntare a attività di condivisione che responsabilizzino chi usufruisce del servizio. In progetti come il car sharing, infatti, il servizio viene offerto da un’azienda, in un modello che prevede la condivisione ‘dall’alto verso il basso’. Attività come Airbnb e Blabla Car, invece, fanno si che i cittadini possano sia offrire che usufruire del servizio in questione. Questo tipo di attività, che disincentivano il vandalismo, sono il punto di partenza per un processo di responsabilizzazione sociale su cui bisognerebbe puntare per realizzare un modello di sharing economy di successo in Italia.
Sarebbe necessario a suo giudizio un atto politico del governo italiano che sostenga senza mezzi termini la creazione di nuove iniziative imprenditoriali nel settore della sharingeconomy?
La nascita della sharing economy è un processo prima di tutto spontaneo. I servizi di condivisioni sono creati e si sviluppano inizialmente dove c’è necessità, e si innestano nel tessuto socio-economico di una comunità in modo diverso, a seconda delle varie condizioni economiche, tecnologiche, sociali e culturali che incontrano. Per questo sono restia a suggerire che uno sforzo centralizzato, che non faccia differenze fra i livelli di sviluppo di tali condizioni nelle varie città possa avere sicuro successo. Una volta che si vengano a creare dei nuclei di crescita della sharing economy, tuttavia, è compito del governo di sostenere tali sforzi e incoraggiare il loro sviluppo e affermazione. A mio parere, il problema fondamentale che le piccole imprese innovative incontrano in Italia, a prescindere che siano organizzate sul modello della sharing economy o no – è il peso fiscale e della burocrazia che rende l’avvio e il primo sviluppo di un’impresa estremamente difficile. Il governo – che comunque ha fatto grandi progressi negli ultimi due anni nel riconoscere e analizzare lo sviluppo di progetti di condivisione – ha il compito di facilitare lo sviluppo di piccole imprese innovative e facilitare gli investimenti locali ed esteri.
Milano è un esempio di città che si è molto spesa nel supporto alla sharing economy. Conosce l’esprienza milanese? come la giudica?
Ho letto e sentito molto degli (ottimi, da quanto ho sentito) servizi di sharing economy a Milano. So, da fonti esterne, che soprattutto in vista dell’EXPO in città sono nate numerosissime iniziative volte a sviluppare tali servizi e dare l’opportunità ai visitatori di conoscere Milano con gli occhi dei cittadini. Un progetto su tutti è Sharexpo, organizzato dall’aministrazione e dai cittadini milanesi per favorire iniziative di condivisione di auto, cucine, camere private.
Nel mio articolo collego lo sviluppo della sharing economy a Milano con le radici storiche e culturali della città. Guida, insieme a Torino, della rivoluzione industriale italiana nel diciannovesimo secolo, Milano si è distinta come centro culturale e economico di intellettuali liberisti e imprenditori. Lo spirito di innovazione, libero mercato e progresso non ha abbandonato Milano che ancora oggi è in cima alla classifica italiana per i servizi di sharing economy.
Se la sente di suggerire, con gli occhi di chi osserva l’Italia dall’estero, una ricetta che possa favorire la l’economia della condivisione?
Come ho detto, riduzione del peso burocratico su piccole e medie imprese, agevolazioni per le startup, regolamentazione che non soffochi le nuove imprese e in generale, apertura verso progetti innovativi.
Nel suo articolo prevede che anche nella sharing economy ci possa essere un’Italia a due velocità con il nord che corre e il sud che stenta. Come si può evitare questo?
Penso che in questo momento il divario fra nord e sud per quanto riguarda lo sviluppo della sharing economy non possa essere evitato. Non è un caso che questo tipo di attività fioriscono soprattutto in città relativamente ricche, avanzate dal punto di vista culturale e digitale, meglio se con un forte senso di comunità (l’ambiente urbano è necessario alla sharing economy, per questo è più difficile parlare di paesi). Queste caratteristiche, purtroppo, mancano in molte città del sud, compresa Roma, che comunque devono affrontare problemi ben più importanti e radicati. Sono dell’idea che per il momento si debba lasciare che le diverse città italiane promuovano tali servizi indipendentemente, e allo stesso tempo si individuino e combattano i problemi delle città del sud alle loro radici. I progetti della sharing economy nascono, in genere, spontaneamente, e necessitano di alcune condizioni di base che molte città del Sud ancora non possono offrire.
Ci sonoi stati alcuni provvedimenti giudiziari (caso uber) oppure un atto del del ministero dello sviluppo economico che obbliga chi cucina a casa propria (caso Gnammo) al pagamento e alla presentazione di una dichiarazione di inizio attività che fanno riflettere sulla necessità di una normativa per regolamentare i servizi di sharing. Lei sarebbe favorevole o pensa che ci possa essere il rischio di ingessare una forma di economia nascente?
Per quanto riguarda casi come Gnammo, Airbnb o UberX/UberPop, credo che ci sia un errore di fondo nell’etichettare come una attività economica tradizionale. Il fondamento della sharing economy è proprio il suo aspetto informale, spontaneo e flessibile che non è replicato da nessun altro modello di business. Regolamentando rigidamente queste caratteristiche, si rischierebbe di soffocare, o comunque impedire la piena realizzazione, dei progetti legati all’economia condivisa. Molti si lamentano che imprese non regolate possano bypassare alcuni requisiti legali a cui le imprese tradizionali devono attenersi (standard igienici, qualificazioni ecc.). La soluzione potrebbe essere una forma di legislazione interna come quella nata nel Regno Unito (SEUK è una piattaforma legale e amministrativa con un codice preciso che unisce le varie attività e imprese di sharing economy), oppure un programma di regolamentazione ad hoc, che tenga conto delle caratteristiche fondamentali dei servizi condivisi e la loro differenza dal modello di business tradizionale.
Ci sono alcuni studi (Airbnb su impatto su Atene e Madrid o uno pubblicato in UK realizzato da Intuit) che hanno calcolato il ritorno economico per i soggetti privati che decidono di diventari attori della sharing economy. Secondo lei la sharing economy può essere un mezzo che può contribuire, in una fase non felicissima per l’economia e per le famiglie italiane, alla ripresa economica e indirettamente a spingere i consumi?
Sono fermamente convinta che la sharing economy possa contribuire in modo significativo alla ripresa economica di determinate comunità e centri urbani, nonostante lo sviluppo del settore non sia abbastanza omogeneo da garantire e guidare la ripresa dell’intero Paese. Come ho detto sono necessarie alcune condizioni – accesso a internet e avanzamento tecnologico in primis – ma soddisfatte queste io credo che ci sia un grande potenziale per le famiglie italiane di trarre profitto dalle attività di sharing. Affittare una stanza in disuso, offrire la propria cucina e la propria tavola, condividere un viaggio in macchina per risparmiare sul carburante sono tutte attività che possono aiutare in modo sostanziale una nuova spinta ai consumi. Per questo ritengo che legislazioni e regolamentazioni troppo rigide possano essere particolarmente dannose: molto spesso sono famiglie o singoli che svolgono questo genere di attività per arrotondare, o come secondo lavoro, e in quanto tali queste iniziative non possono essere regolate e tassate come business tradizionali. La sharing economy è un esempio di capitalismo democratico, a cui tutti possono partecipare investendo una parte modesta di capitale, molto spesso ‘immobile’ fino a quel momento (una camera in disuso, per esempio), condividendolo con la comunità a prezzi competitivi e generando profitti per sé e per gli altri. Inoltre, e questo è un punto che è importante sottolineare, le attività della sharing economy potrebbero essere la risposta all’insostenibilità del modello economico di mainstream. Condividere – invece di semplicemente sfruttare – oggetti e servizi permette di risparmiare su risorse e costi e potrebbe risultare nell’evoluzione del modello capitalista in uno nuovo, più sostenibile a livello economico e ambientale.
In Usa la sharing economy è entrata nel dibattito tra i possibili candidati alle prossime elezioni per la presidenza USA relativamente alla tutela dei lavoratori. ha una posizione in merito?
Credo che la posizioni più chiare sulla sharing economy siano state offerte dai candidati democratici Clinton e Sanders. Sanders in particolare è rimasto fedele ai suoi ideali politici nel dichiarare ferma opposizione a imprese del genere, per timore delle ripercussioni negative per gli impiegati, che in aziende come Uber non possono usufruire di contributi, protezioni e i cui diritti lavorativi sono poco chiari. D’altro canto Clinton ha sì, espresso preoccupazione per quanto rigaurda i rischi che corrono gli impiegati ‘irregolari’ di compagnie come Uber, ma si è anche detta consapevole delle potenzialità della sharing economy nello sviluppo di nuovi servizi innovativi e nella creazione di servizi condivisi che siano di beneficio alla comunità. Alcuni Repubblicani, tradizionalmente pro-business, si sono dichiarati a favore della sharing economy, ma non hanno offerto spunti particolarmente originiali per la discussione. Mi aspetto comunque che i due candidati per le elezioni di Novembre 2016 dovranno affrontare il tema con particlolare attenzione: la sharing economy è nata proprio nel polo d’innovazione americano della Sylicon Valley, ed è tutt’oggi un argomento che divide l’opinione pubblica. Ritengo comunque che un approccio alla Clinton, cautamente favorevole, sia preferibile a un soffocamento definitivo delle varie compagnie che offrono servizi di sharing economy. Gli Stati Uniti sono da sempre all’avanguardia nell’innovazione economica, e credo che l’intervento del nuovo presidente sarà fondamentale per preservare, incoraggiare e regolare (poco e dove serve) la sharing economy, ed essere da esempio ad altri governi alle prese con simili problematiche.
Ultima domanda: a Londra, la città in cui vive, qual è lo stato di salute dell’economia della condivisione? ci sono società/servizi ai quali l’Italia potrebbe ispirarsi?
Londra è da sempre città d’avanguardia, e dunque una delle prime a sperimentare con la sharing economy. Il servizio di bike sharing è particolarmente popolare e funziona perfettamente, ma in generale la stragrande maggioranza delle attività innovative e delle startups nasce ed è incubato nell’ambiente cosmopolita londinese. Molto popolari sono anche i servizi di peer-to-peer lending, che sono estremamente utili per la nascita e lo sviluppo di ancora nuove imprese. Il sistema della sharing economy londinese è esemplare in quanto, in generale, si mantiene e finanzia autonomamente attraverso crowdfunding e crowdsourcing, ma è comunque incoraggiato da un governo aperto al libero mercato e concentrato sull’innovazione. L’atmosfera giovane, dinamica e cosmopolita della città la rende un hub desiderabile per la nascita e lo sviluppo di attività di condivisione e sviluppo tecnologico. Anche il più recente impegno ecologico del sindaco Boris Johnson hanno causato maggiore popolarità in servizi di sharing sostenibili.
A Londra, inoltre, è stato fondato il SEUK (Sharing Economy UK), il primo tentativo spontaneo di unire e regolare i servizi di sharing economy nel paese. Questo tipo di iniziativa potrebbe essere la risposta al problema italiano della regolamentazione dei servizi di sharing; ma in generale è la mentalità anglosassone, e in particolare londinese, che gli italiani dovrebbero prendere a modello per un più fiorente sviluppo dell’economia della condivisione.